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Felice riscoperta di un artista verista e scapigliato, allievo di Enrico Scuri alla Carrara che tanto l'ebbe stima e da cui apprese l'arte neoclassica del ben disegnare e dipingere pur ricollegandosi molto più alla prima scapigliatura bergamasca, avvicinandosi talvolta all'ultimo Piccio. Basti guardare il ritratto di copertina con quell'espressione un po' spavalda, quasi sfida al mondo di un Clark Gable di là da venire. Giacomo, nato a Piazza Brembana nel 1848, lasciò questa vita a Bergamo nel 1915. Da guerra a guerra. La sua vita fu tutta una conquista. La prima, frequentare l'Accademia Carrara su consiglio e aiuto di quel benemerito arciprete di Piazza Brembana don Angelo Tondini, che aiutò anche l'amico Eugenio Goglio, divenuto gran fotografo. Nel 1903 fotografò il suo arciprete morto, seduto una sedia istoriata. Il nostro Calegari vinse premi alla Carrara, fu, insieme a Ponziano Loverini, il prediletto dello Scuri, che ne apprezzava estro, diligenza e straordinario impegno. Fra i compagni della Carrara Rinaldo Agazzi, Giovanni Pezzotta, Spinelli, Riva, Cavalleri. Per poter studiare, Giacomo dipingeva apprezzati ritratti di notabili, mentre intorno al 1880 soggiornò a Roma frequentando artisti fra i quali Cesare Maccari, in auge nella capitale umbertina. Continuò a frequentare la Carrara e a partecipare ad esposizioni. Nel 1987 fu assai apprezzato dalla critica il famoso Ritratto di Gaetano Donizetti in piedi davanti ad una balaustra, manifesto della mostra centenaria del musicista. Apprezzato anche il dipinto di Donizetti morente, in ascolto del significativo finale di Lucia, "Tu che a Dio spiegasti l'ali". Nel 1898, quando il direttore della Carrara, Cesare Tallone (subentrato allo Scuri nel 1885), fu nominato alla Brera, candidati alla successione erano il Calegari e il Loverini. Fu scelto Loverini anche per il precario stato di salute di Giacomo. Salute che nel 1906 andò via via peggiorando, pur continuando egli a dipingere. Ultimo, il Ritratto della Contessa Suardi, in una felice tonalità cromatica, abbozzato con la mano sinistra e vedendo con un solo occhio. Fra gli oltre cinquanta ritratti del libro, il già citato Autoritratto e il Ritratto di don Marco Calvi, del 1875, emblematici della sua stretta e asciutta aderenza al vero, non esente da divagazioni e attenzione a particolari tesi a cogliere la personalità, a renderla viva e attuale, anche con effetti ricercati di luce. Si ammirino gli occhi pungenti e indagatori nel Notaio Bernardo Mocchi; lo sguardo severo del Prevosto di Pignolo don Pietro Armati; il nobile sorriso della Contessa Piccinelli con quel colletto di raso da far invidia a Fra Galgario; l'imponente Dottor Alcaini, di indiscutibile certezza medica;, il Direttore d'orchestra del 1884, di assorta consapevolezza. Il ritratto del suo caro Don Angelo Tondini, del 1903, par riprendere da vivo, con tutto il suo affetto, la fotografia che gli fece da morto l'amico Goglio. Intensi e "moderni" i ritratti del padre, Il papà fa la barba e Papà in lettura; di sobria commozione La mamma che muore. Una tenerezza i ritratti dei familiari. Nel municipio di Piazza Brembana, vive l'altera bontà e fierezza (quasi un alter ego del ritratto Donizetti), nel Ritratto di Clelia Pizzigoni, mamma Calvi, mamma dei quattro fratelli Natale, Attilio, Santino, Giannino, umili eroi del proprio dovere (nella Prima Guerra Mondiale) che ci giudicano con il loro silenzio, come scrisse di loro Ermanno Olmi. Fra le scene di genere, molto conosciuta la Gita campestre, in cui una contadinella fila la lana mentre accudisce le pecore, indicando la via a tre eleganti giovani cittadini. Scarsa la pittura sacra, che tuttavia non manca nel libro. Bene han fatto gli autori a inserire i poco conosciuti disegni, con quell'Abramo scaccia Agar che, mentre denota uno sguardo al quadro di Agar del Piccio, rivela quella grande abilità nel disegno apprezzata dal maestro Scuri.